DICEMBRE 2023
Lettera del Direttore ai genitori
Torino, 1 dicembre 2023
Cari Genitori
entriamo nel mese di dicembre, il mese dove noi cristiani riconosciamo in quel bimbo di Betlemme il Salvatore. Sono molto grato della mattinata di ritiro che abbiamo vissuto con un bel gruppo di voi domenica scorsa. E’ stato un momento familiare e intenso che ancora una volta mostra come la nostra scuola sia più di una scuola: è una Casa, è una Comunità.
In questo mese così speciale e unico voglio raccontarvi la storia di Irene figlia unica e adottata.
La sua famiglia è molto presente. Il papà si prenota per uno dei colloqui, e racconta la storia della sua famiglia, dell’adozione di Irene, che è figlia unica. «Non ci ha mai dato problemi – dice –. È una sempre sul pezzo. Ci confrontiamo serenamente su tutto. Però… però adesso quella domanda le ronza dentro. La domanda sulle sue origini, sui suoi genitori biologici, che sono un mistero per tutti noi. Un mistero che rimarrà, ma che la tormenta, anche se non lo dice. Io però la conosco troppo bene. Del resto, è mia figlia».
È mia figlia. Lo dice con una certezza assoluta, che schiude un universo. Una certezza che fa venire la pelle d’oca. Il papà di Irene saluta dicendo: «Quella domanda esploderà, vedrà».
Le cose vanno proprio come il papà di Irene ha ipotizzato. La domanda esplode prepotente durante una lezione sull’Iliade. Si sta leggendo un brano che precede lo scontro tra Ettore e Achille. Ecuba, madre del troiano Ettore, lo implora di non scendere in battaglia contro l’eroe acheo perché teme che resterà ucciso. Lo prega chiedendo di avere pietà di lei, che sarebbe distrutta dal dolore se il figlio morisse. Mostra a Ettore il seno con cui, quando l’eroe era bambino, lei lo ha allattato. Il seno, segno dell’unione indissolubile tra madre e figlio, segno della cura che sancisce un legame eterno.
Di fronte a quell’immagine, Irene si incupisce all’improvviso. Alza la mano: «E se uno non è stato allattato al seno? Il legame è meno forte?», chiede. Il professore è preso in contropiede: «ovviamente no, non è così». Lei non insiste, la butta sullo scherzo: «Se uno per esempio è stato allattato col biberon?».
I compagni ridono, anche Irene sforza un sorriso. Ma l’espressione cupa le resta. Il pomeriggio Irene scrive una mail al professore di italiano: «Scusi, prof, se ho banalizzato la scena della madre di Ettore. Mi ha molto commossa, mi creda». «Lo so – risponde il prof –. Se vuoi confrontarti su qualsiasi cosa, ci sono».
Lei ringrazia ma non ritornerà più sull’argomento che però le resta dentro: lo si vede dai suoi occhi, dalla sua agitazione crescente, dalla sempre più marcata insofferenza, che non può essere spiegata solo con il caldo più afoso e con la fine dell’anno che si avvicina. Il suo look cambia: da corti, i capelli diventano rasati quasi a zero, il trucco si appesantisce, l’abbigliamento vira verso il dark. Il rendimento scolastico cala, le domande in classe diminuiscono: Irene si chiude in se stessa, è spesso distratta.
Arriva l’estate. Dalla fine della scuola all’inizio dell’anno successivo, Irene non scrive più al prof.
Il primo giorno di scuola della seconda superiore è una festa un po’ scomposta: i ragazzi rientrano più cresciuti.
Alla fine dell’ora Irene affianca il suo docente di lettere: «Tenga, prof. Quest’estate, una notte, ho scritto questo per lei. Mi aveva detto che se avessi voluto confrontarmi, lei ci sarebbe stato. Non voglio confrontarmi, voglio solo condividere questo. L’ho scritto in una notte in cui le domande erano troppe: sono uscita, ho passeggiato lungo il mare calmo e appena rientrata mi sono messa a scrivere».
Le parole sono come una rasoiata. Come un balsamo. «Io non sono stata allattata da nessuno. Sono stata messa in una culla tra tante altre culle, in un grande stanzone, a piangere da sola, senza che nessuno venisse, se non qualche inserviente, una volta ogni tanto. A volte mi legavano. Certi flash di cose che hai vissuto ti restano dentro, come un marchio a fuoco. Ti si imprimono chissà come nei ricordi, rinascono negli incubi. Ma io sono stata fortunata, perché due persone sono venute a strapparmi da quell’inferno. Una mamma e un papà, che mi hanno regalato la vita, perché mi hanno generata di nuovo».
Le parole di Irene, col loro profumo di mare insegnano una volta di più che essere genitori è questione di amore, di dono, di accoglienza; non di sangue, di poppate e di Dna. Ma Irene ha scritto anche altro. Qualcosa di immenso: «Per anni ho odiato la donna che mi ha partorito e poi abbandonato. La ritenevo una persona spregevole, non la consideravo mia madre. Il solo pensiero di lei mi infastidiva, cercavo di evitarlo. Invece adesso ho capito che anche lei, in qualche modo, mi ha fatto un dono immenso. Non so perché ha deciso di rinunciare a me. Forse lo ha fatto perché si rendeva conto di non riuscire a occuparsi di me; forse, soffrendo atrocemente, ha preferito affidarmi ad altri per darmi una chance che con lei sarebbe stata impossibile. Per questo la devo ringraziare; perché, in qualche modo, il suo è stato un gesto d’amore. Amare non è tenere per forza qualcuno con sé perché con lui stiamo bene. Quello è possesso, non amore. Amare è volere il bene dell’altro a tutti i costi, anche a costo di perderlo. Amare non è trattenere, amare è lasciare andare».
In questo tempo di preparazione al Natale questa vicenda così vera e toccante ci fa riflettere e mi ha fatto venire in mente una scena di un film che ho citato agli allievi del Triennio nel “Buongiorno” della scorsa settimana, mentre commentavo il femminicidio di Giulia. Il film è Una settimana da Dio, interpretato, tra gli altri, da Morgan Freeman nel ruolo di Dio e da Jim Carrey nel ruolo di Bruce Nolan, un giornalista che riceve da Dio tutti i suoi poteri. Bruce diventa onnipotente: può aprire in due una zuppa al pomodoro come Dio aveva separato il mar Rosso, può camminare sulle acque come Gesù nei Vangeli, può addirittura spostare la Luna, avvicinandola alla Terra in occasione di una serata romantica. Ma quando Grace (Jennifer Aniston), la sua fidanzata, lo lascia e lui prova ad attirarla di nuovo a sé ordinandole di amarlo, si rende contro di essere impotente: Grace tira dritto e se ne va. Bruce protesta con Dio: se non può obbligare la sua ragazza ad amarlo, Dio non lo ha reso davvero onnipotente come lui, lo ha preso in giro. Dio però lo spiazza. Gli risponde che nessuno può obbligare un altro essere umano ad amarlo, nemmeno Dio stesso. Perché il criterio supremo dell’amore non è la passione. Il criterio supremo dell’amore è la libertà.
L’amore è così: potente e insieme fragile, ha il potere di cambiarci ma va accudito e protetto; è come un bambino, anzi, no: è il Bambino!
Un caro saluto e l’augurio di un buon Avvento
Don Enrico
AVVISI
Vi invito tutti alla nostra festa di Natale che sarà sabato 16 dicembre dalle ore 18,30 alle 21,00. L’organizzazione è già partita! Vi ricordo che in quell’occasione desideriamo esprimere la nostra solidarietà ai giovani studenti della nostra scuola salesiana del Pakistan sostenendo i progetti per dotare la nostra scuola pakistana di attrezzature sportive, ricreative e di strumenti musicali.
Vi invito anche a partecipare alla S. Messa di Natale di Mezzanotte nella nostra chiesa parrocchiale. Seguirà un momento conviviale di scambio di auguri.